Genitori si diventa. Anche in condizioni di incertezza
Al giorno d’oggi, come si rappresenta e costruisce la genitorialità in contesti sociali e relazionali caratterizzati da crescente diversità? Cosa comportano le diverse modalità di diventare e fare il genitore in situazioni di insicurezza e di esclusione? Quali sono le forme di supporto alla genitorialità e quali idee di genitorialità, e più in generale, di famiglie rispecchiano? Sono alcune delle domande che stanno alla base del progetto COPING che coinvolge le Università di Bolzano, di Trento (capofila), Trieste e della Calabria. Ne abbiamo parlato con il coordinatore dell’unità locale, Urban Nothdurfter, ricercatore alla Facoltà di Scienze della Formazione a Bressanone.
Urban Nothdurfter, qual è il punto di partenza della vostra ricerca?
Lo studio della genitorialità ha prodotto una abbondante letteratura, con un numero crescente di esperti e consiglieri - spesso autoproclamati – che stabiliscono standard, forniscono istruzioni e identificano errori nell’educazione dei figli. Purtroppo, molte voci delle persone con responsabilità genitoriali, in particolare di coloro che si trovano in condizioni di difficoltà, raramente sono state ascoltate. La ricerca che abbiamo intrapreso mira a colmare questa lacuna e a fornire nuove conoscenze sulle rappresentazioni di genitorialità e le responsabilità che vi sono connesse. Il progetto vuole analizzare come le politiche familiari e sociali nonché le pratiche professionali si collegano alle autorappresentazioni dei genitori e a sfide e bisogni da loro definiti.
Al termine della ricerca, vi aspettate dei risultati concreti?
Questo progetto, pur riconoscendo i ruoli e i diritti dei genitori, nasce da un approccio che sottolinea le responsabilità sociali e politiche nel sostenere i ruoli genitoriali e l’educazione dei figli e mira a superare una visione individualistica della genitorialità. I risultati attesi della ricerca dovranno fornire un contributo alla costruzione di politiche e interventi più inclusivi. Un obiettivo concreto è quello di proporre, partendo dai risultati della ricerca, un’offerta formativa specifica e innovativa ai professionisti del settore. I modelli e i modi di fare ed essere famiglia costituiscono un tema molto sensibile, carico di valori e significati anche contrastanti e, purtroppo, altamente suscettibile di strumentalizzazioni di natura politica.
Come vi ci siete approcciati?
Dal punto di vista delle scienze sociali è chiaro che la famiglia o meglio le famiglie non possono essere mai concepite come “questione di natura”, come ha sottolineato la sociologa Chiara Saraceno, in uno dei suoi tanti contributi sul tema. Lo studio delle famiglie in tempi, culture e condizioni diverse ha, infatti, ampiamente dimostrato che le famiglie sono delle costruzioni sociali, legali e normative molto eterogenee che stanno cambiando nel tempo e in base al loro contesto sociale e culturale. In questo senso, ai grandi mutamenti sociali si accompagnano sempre anche dei cambiamenti nei modi di fare e intendere la famiglia e nella composizione, frequenza, visibilità e legittimità delle sue diverse forme.
Questo come ha influito sulle modalità di fare ricerca?
Negli ultimi anni, la ricerca sociale sulle famiglie è stata fortemente influenzata dalla prospettiva del practical turn che sposta l’attenzione dalla famiglia come istituzione e dall’analisi della sua diversità morfologica al doing family cioè alle pratiche di relazionarsi e costituirsi come famiglia. Non è un caso che quest’ottica si è sviluppata anche attraverso lo sguardo a forme di famiglie diverse dalla rappresentazione dominante, come lo possono essere le famiglie monoparentali, le famiglie omogenitoriali o arcobaleno, le famiglie allargate, ricostituite o multilocali nonché le famiglie adottive e affidatarie. In quest’ottica, le famiglie sono il risultato della costruzione e del mantenimento di relazioni, del prendersi cura e dei compiti svolti nel quadro delle responsabilità assunte. Anche rispetto alla genitorialità, questo sguardo si focalizza sulle pratiche di cura e di relazione messe in atto dalle figure genitoriali, come appropriatamente espresso dal concetto inglese di parenting, cioè la dimensione del “fare i genitori”.
Come vi ci siete approcciati?
Dal punto di vista delle scienze sociali è chiaro che la famiglia o meglio le famiglie non possono essere mai concepite come “questione di natura”, come ha sottolineato la sociologa Chiara Saraceno, in uno dei suoi tanti contributi sul tema. Lo studio delle famiglie in tempi, culture e condizioni diverse ha, infatti, ampiamente dimostrato che le famiglie sono delle costruzioni sociali, legali e normative molto eterogenee che stanno cambiando nel tempo e in base al loro contesto sociale e culturale. In questo senso, ai grandi mutamenti sociali si accompagnano sempre anche dei cambiamenti nei modi di fare e intendere la famiglia e nella composizione, frequenza, visibilità e legittimità delle sue diverse forme.
Questo come ha influito sulle modalità di fare ricerca?
Negli ultimi anni, la ricerca sociale sulle famiglie è stata fortemente influenzata dalla prospettiva del practical turn che sposta l’attenzione dalla famiglia come istituzione e dall’analisi della sua diversità morfologica al doing family cioè alle pratiche di relazionarsi e costituirsi come famiglia. Non è un caso che quest’ottica si è sviluppata anche attraverso lo sguardo a forme di famiglie diverse dalla rappresentazione dominante, come lo possono essere le famiglie monoparentali, le famiglie omogenitoriali o arcobaleno, le famiglie allargate, ricostituite o multilocali nonché le famiglie adottive e affidatarie. In quest’ottica, le famiglie sono il risultato della costruzione e del mantenimento di relazioni, del prendersi cura e dei compiti svolti nel quadro delle responsabilità assunte. Anche rispetto alla genitorialità, questo sguardo si focalizza sulle pratiche di cura e di relazione messe in atto dalle figure genitoriali, come appropriatamente espresso dal concetto inglese di parenting, cioè la dimensione del “fare i genitori”.
Questo diverso sguardo ha apportato dei vantaggi?
Tale concezione ha il vantaggio di poter essere applicata a forme di famiglie molto diverse tra di loro e di poter contribuire alla critica di rappresentazioni dominanti e stereotipate di famiglia e di ruoli di genere ad esse connesse. Con il progetto COPING vogliamo, attraverso strategie e metodi di ricerca prevalentemente qualitativi, esplorare le sfide e le pratiche genitoriali significative di famiglie in condizioni diverse. In particolare, intendiamo dedicare particolare attenzione alle famiglie spesso escluse da quelli che sono standard e rappresentazioni dominanti e alle famiglie che vivono situazioni di insicurezza e di svantaggio. Coinvolgeremo genitori che vivono in condizioni di povertà o in condizioni economiche precarie, con esperienze di migrazione forzata, genitori che affrontano sfide specifiche legati a conflitti e esperienze di violenza e famiglie che comprendono, come genitori, persone LGBTQ.
L’unità di ricerca locale di unibz si occuperà di aspetti specifici della ricerca?
Sì, noi saremo responsabili per il tema delle genitorialità delle persone LGBTQ (lesbiche, gay, bisessuali, trans e queer). L’assunzione di ruoli genitoriali è sempre più visibile anche in famiglie che coinvolgono persone LGBTQ. Sebbene non sia un fenomeno nuovo, l’accettazione sociale e le nuove possibilità di diventare genitori hanno reso la genitorialità di persone LGBTQ più comune e più visibile. Le persone LGBTQ possono diventare genitori o attraverso la nascita diretta di un bambino o, come del resto anche le persone eterosessuali, attraverso ulteriori strade. Il nome del progetto, COPING, deriva dall’acronimo di Constructions of Parenthood on Insecure Grounds, ovvero “Le costruzioni della genitorialità in condizioni di insicurezza”.
Questo è certamente l’aspetto più controverso. Quali sono le sfide che si trovano
ad affrontare queste persone, nel loro desiderio di genitorialità?
Le ricerche hanno chiaramente dimostrato che non ci sono differenze nelle capacità genitoriali tra genitori eterosessuali e genitori omosessuali. Le persone LGBTQ devono certamente trovare delle soluzioni meno convenzionali per diventare genitori e dispongono probabilmente di idee e concezioni diverse di genitorialità. In questo senso, possono avere da un lato il vantaggio di ridefinire e reinventare i loro modelli di famiglia e di genitorialità. Allo stesso tempo, devono affrontare una serie di sfide specifiche di natura
etica, legale, sociale e economica e di ostacoli nel diventare ed essere genitori. Inoltre, i genitori LGBTQ devono fare i conti con atteggiamenti e normatività di ambienti e istituzioni sociali. In questo senso, anche le loro esperienze con servizi e professioni sanitari e sociali non preparati per sfidare un immaginario tradizionale di famiglia possono essere problematiche. Le loro esperienze dipendono molto dal contatto con i professionisti del sociale che svolgono un ruolo importante nel riconoscimento e nel supporto delle genitorialità LGBTQ e dall’apertura di quest’ultimi.
Il progetto di ricerca coinvolge un team multidisciplinare della Facoltà di Scienze della Formazione con competenze in ambito sociologico, pedagogico, picologico, giuridico e del servizio sociale. Ne fanno parte Urban Nothdurfter (coordinatore), Ulrike Loch, Andrea Nagy, Kolis Summerer e Livia Taverna. Responsabile scientifico del progetto è la prof.ssa Silvia Fargion dell’Università di Trento.
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