Sciami di big data per salvare le api
E se le onnipresenti tecnologie informatiche – guardate con crescente sospetto, dopo lo scandalo che ha investito Facebook – potessero anche aiutarci a capire come proteggere le api mellifere? È qualcosa di più di un’ipotesi di lavoro. Ci stanno già provando i ricercatori della Facoltà di Scienze e Tecnologie, guidati da Sergio Angeli, entomologo, ricercatore ed esperto di apicoltura, con il progetto Stefanie.
Il campanello d’allarme suona da anni: le api muoiono in massa. Le possibili cause sono molteplici: inquinamento ambientale, cambiamenti climatici, abuso di pesticidi in agricoltura. Purtroppo, finora, non esiste un’unica, convincente spiegazione per la moria delle api mellifere, denominata Sindrome da Spopolamento degli Alveari.
I neonicotinoidi, sostanze di sintesi simili alla nicotina, sono sospettati di essere tra i più spietati killer di api tant’è che l’Unione Europea, su indicazione dell’Autorità EFSA, ha introdotto pesanti limitazioni al loro impiego. Si tratta di antiparassitari sistemici che non rimangono in superficie ma, assorbiti dalle piante, vengono trasportati in ogni parte dell’organismo vegetale. Agiscono sul sistema nervoso centrale degli insetti – in particolare degli afidi – mandandolo in corto circuito e conducendoli alla paralisi e alla morte. L’inconveniente è che questi insetticidi non limitano i loro effetti ai nemici della frutticoltura ma sembrano colpire anche le api che si riforniscono di polline dagli alberi sottoposti a trattamento.
I neonicotinoidi sono antiparassitari sistemici che non rimangono in superficie ma, assorbiti dalle piante, vengono trasportati in ogni parte dell’organismo vegetale. Agiscono sul sistema nervoso centrale degli insetti – in particolare degli afidi – mandandolo in corto circuito e conducendoli alla paralisi e alla morte. L’inconveniente è che questi insetticidi non limitano i loro effetti ai nemici della frutticoltura ma sembrano colpire anche le api che si riforniscono di polline dagli alberi sottoposti a trattamento.
Sull’opportunità di usare i neonicotinoidi in agricoltura si sono così formati due fronti opposti. Da un lato della barricata, troviamo le imprese che commercializzano gli antiparassitari e che negano ogni ripercussione sulla salute delle api. Dall’altra, però – e tra questi la Federazione degli Apicoltori Italiani, FAI – c’è chi teme che questi, a livello globale, siano responsabili di una riduzione notevole del numero di alveari, avendo notato una correlazione tra l’utilizzo delle sostanze e la scomparsa delle api.
In Alto Adige, regione che dalla salute degli insetti impollinatori fa dipendere il destino di uno dei suoi prodotti di punta – la mela –, qualcosa si sta muovendo. Il team di ricerca di Sergio Angeli, entomologo e docente della Facoltà di Scienze e Tecnologie della Libera Università di Bolzano, assieme alla Fondazione Mach e il CiMeC (Centro Interdipartimentale Mente Cervello) dell’Università di Trento, ha avviato il progetto Stefanie con l’obiettivo di studiare i possibili effetti nocivi delle neurotossine sul cervello dei preziosi insetti.
“A livello mondiale, l’ape è il terzo animale da produzione economicamente più pregiato e anche per la nostra agricoltura di montagna, ha un enorme valore. Per questa ragione, vogliamo capire quali sono gli effetti degli antiparassitari usati nella melicoltura in provincia di Bolzano”, spiega Angeli. Il progetto Stefanie mira a individuare i potenziali effetti acuti acuti di dosi subletali dei neonicotinoidi. “Oltre a questo aspetto”, puntualizza Riccardo Favaro, ricercatore e collaboratore di Angeli per il progetto Stefanie, “stiamo esaminando la tossicità cronica legata alle concentrazioni che non provocano la morte dell’insetto ma che si ritiene possano provocare un comportamento anomalo dell’ape chiamato homing failure o disorientamento”. Normalmente, infatti, le api riescono a volare a chilometri di distanza dall’arnia. Quando sopraggiunge il disorientamento, esse non trovano più la strada di casa e muoiono. Angeli e Favaro hanno notato che in Alto Adige, soprattutto in primavera, le popolazioni di api regrediscono. Se le api scendono sotto un certo limite, però, non riescono più a lavorare come superorganismo e ciò si traduce in un danno alla catena della produzione agricola. Capire la causa di questa scomparsa è la missione dei ricercatori di unibz. Un indizio da seguire è proprio l’uso dei neonicotinoidi, già sul banco degli imputati.
In provincia di Bolzano, l'utilizzo dei neonicotinoidi è stato proibito solo nel periodo floreale ma è fortemente sconsigliato anche in altri periodi perché le piante sottochioma, ad esempio i tarassachi, possono comunque assorbire gli insetticidi. “Stiamo cercando di osservare se il disorientamento è correlato all’uso dei neonicotinoidi in agricoltura. Fino a poco tempo fa, una misurazione oggettiva dell’effettivo rientro delle api era impossibile. Doveva essere fatto tutto tramite una stima visiva, importante ma non in grado di disegnare un contorno statistico preciso del fenomeno”. In aiuto dei ricercatori della Facoltà di Scienze e Tecnologie è venuta l’innovazione tecnologica di una startup trentina, la Melixa Srl, che ha inventato un sistema di sensori per contare gli ingressi e le uscite delle api dalle arnie.
Pochi anni fa, prima dell’irruzione dei big data, un tale esperimento non sarebbe stato possibile. Ora, grazie a questo “apparecchio conta-api” il comportamento degli insetti può essere registrato in maniera esatta. Per osservare il comportamento nei diversi voli, Angeli e Favaro hanno sistemato dei sensori nell’alveare che trasmettevano in continuazione i dati a un server remoto. Un’autentica rivoluzione anche per chi alleva api perché può sapere in ogni momento se ci sono perdite nella popolazione e quali ne siano le reali dimensioni.
“Per osservare il comportamento nei diversi voli, abbiamo sistemato dei sensori nell’alveare. Questi trasmettevano in continuazione i dati a un server remoto”, chiariscono Angeli e Favaro. Il primo esperimento del progetto Stefanie è stato condotto su 15 colonie, uniformi per numero e patrimonio genetico. Gli antiparassitari impiegati sono stati l’Imidacloprid e il Thiacloprid: il primo è stato scelto perché accusato di essere il più tossico tra i neonicotinoidi, il secondo perché le api sembrerebbero essere meno sensibili a questo prodotto rispetto ad altri simili. “Un terzo delle colonie sono state nutrite ad acqua e zucchero, un terzo con acqua, zucchero e una dose subletale di Imidacloprid e l’ultimo terzo con Thiacloprid”, commentano. Per 21 giorni, ogni 15 minuti, il computer collegato ai sensori dentro alle arnie ha registrato oltre sette variabili per ogni alveare. Così è stato possibile raccogliere oltre 30.000 “pacchetti” di dati sulle 15 colonie di api: informazioni dettagliate riguardanti, ad esempio, l’uscita e l’entrata delle api, il peso nel tempo dell’arnia o la temperatura interna.
Le misurazioni effettuate finora dai ricercatori hanno dimostrato che tra le diverse colonie non sussistevano eclatanti differenze. Una scoperta importante perché permette di sgomberare il campo da sospetti e concentrare gli sforzi su altri versanti. Ma si tratta solo del primo passo del progetto Stefanie. Grazie alla tecnologia dei big data, i due scienziati stanno già conducendo altri esperimenti per capire come influisca sulla vita delle api l’interazione sinergica tra neonicotinoidi e altri insetticidi o fungicidi impiegati in agricoltura. Ciò al fine di ottimizzare i piani di trattamento per le colture locali. “Oltre a questi risultati stiamo aspettando risposte a domande fondamentali sui meccanismi con cui i neonicotinoidi modulano l'elaborazione degli odori nel cervello”, concludono Angeli e Favaro, “individueremo le routine comportamentali più soggette a queste neurotossine e che potrebbero squilibrare l'organizzazione sociale”.
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