“Voci Nere. Storia e antropologia del canto afroamericano" (ed. Mimesis) dell’etnomusicologo e docente unibz Gianpaolo Chiriacò è il primo libro che in Italia prova a tracciare l’evoluzione, dal punto di vista storico e antropologico, della voce afroamericana. Grazie alla prosa coinvolgente, frutto delle sue esperienze giornalistiche, e alla transmedialità del libro - gli inserti di QR-Code permettono di ascoltare e vedere brani e video musicali cui fa riferimento l’autore mentre lo si sta leggendo –, il volume ha il pregio di essere in grado di parlare sia a interlocutori accademici che all’appassionato di musica, accompagnato in un viaggio che spazia tra il Sud degli Stati Uniti e Chicago, la città che ha marchiato come poche altre la storia della musica nera contemporanea.

Nel 2011 Gianpaolo Chiriacò è partito dalla sua terra d’origine, il Salento, ed è andato a fare ricerca sul campo, come fa ogni buon antropologo. Solo che, invece di andare ad osservare le pratiche musicali di sperdute tribù in qualche foresta dell’emisfero australe, si è immerso nella giungla di cemento e acciaio del South Side a Chicago, laddove batte il cuore nero della città del blues, per conoscere e intervistare musicisti locali. Chiriacò ha lavorato per tre anni nel Center for Black Music Research (Chicago) nell’ambito del progetto Marie Curie dal titolo Afrovocality e, da quell’esperienza, è nato il libro di cui parliamo nell’intervista che segue.

Come è stato il primo approccio alla realtà della comunità dei musicisti neri di Chicago?
Io ho iniziato il mio percorso di formazione musicale cantando gospel e jazz e suonando in diverse band reggae. Quindi, sentivo come mio il patrimonio della cultura nera, mi ci identificavo totalmente. Inoltre, provenivo da un territorio, il Sud Italia, meticcio e che, a mio parere, presentava tanti tratti culturali e sociali che potevano far scattare un mio riconoscimento anche da parte della società afroamericana e della comunità di musicisti neri di Chicago. Le strade dei quartieri neri mi ricordavano istintivamente l’area urbana di Taranto detta Salinella, dove sono cresciuto, per cui ho pensato: “sarà certamente facile”. In realtà non è stato così, almeno all’inizio. Sono stato visto con sospetto: ai loro occhi ero comunque il bianco, europeo, accademico. Certamente ero molto lontano da tutti i codici culturali dell’ambiente afroamericano che ho dovuto imparare a decifrare. In questo senso, dal punto di vista della ricerca antropologica, è stata un’esperienza umana e professionale unica.

Da dove trae origine la ricerca sulla “black voice”?
Tutti pensano di sapere come suona o debba suonare una voce “nera”. Lo si dà quasi per scontato. Ma nessuno in fondo lo sa realmente. Questo mi ha portato a confrontarmi con la documentazione storica, facendo una storia della vocalità.

Come si fa una storia, basata su documenti quindi, di una cosa come la vocalità?
Ci sono dei documenti scritti che possono essere utili. Bisogna però scavare nelle crepe di questi testi, come faceva lo storico Carlo Ginzburg. L’importante è capire che non si può scrivere una storia lineare. Non lo si può fare per due motivi: in primis perché non c’è una documentazione completa e poi perché ciò non farebbe altro che perpetuare un approccio eurocentrico. Sarei io che da europeo stabilisco le tappe dello sviluppo della vocalità afroamericana, magari espungendo tutto quello che non si conforma a questo schema a tappe. L’idea di appiccicare un’identità non mi andava e non andava bene. Per questo ho cambiato l’approccio.

Una vecchia immagine del South Side di Chicago.

Cos’è, allora, questa storia “a salti”?
Ho cercato di riconoscere e isolare una serie di antenati o “ancestors”, di figure-cardine, che possono essere richiamate dagli artisti neri nel momento della performance. Quando mi esibisco, io, cantante afroamericano, il modo in cui enuncio ed elaboro la mia melodia si va ad appigliare a un passato il cui senso io faccio rivivere. Descrivere questo processo fa parte di quella ricostruzione storica e antropologica cui ho lavorato.

Tra il canto e la vocalità nera e quella bianca, europea, c’è una grande differenza, quindi.
Certo e per due motivi fondamentali. Per il tipo di esperienza: se per 250 anni, a una popolazione viene negato l’accesso alla scrittura e alla lettura – gli slave codes, i codici degli schiavi, lo dicevano chiaramente: uno schiavo che fosse stato sorpreso a scrivere o a imparare a farlo, sarebbe stato giustiziato immediatamente e il proprietario avrebbe dovuto pagare multe salatissime – la voce diventa l’unico strumento di trasmissione del sapere e dei vissuti. I repertori popolari del Sud Italia per esempio, inizialmente solo orali, a un certo punto toccano il territorio della scrittura: entrano nelle Chiese o vengono magari trascritti da un monaco o da un maestro di paese. Negli USA invece c’era un regime che impediva questa osmosi tra oralità e scrittura.

Gianpaolo Chiriacò con alcuni protagonisti della scena artistica di Chicago.

Quali sono le conseguenze sulla musica e sulla voce?
Qui arriviamo al secondo motivo: non esiste un modo di cantare considerato più appropriato o più bello. Nella musica nera ciò che conta diventa l’impronta personale dell’interprete, che permette di capire che brano e che contesto si sta cantando, ma anche di discostarsi da un’interpretazione standard o fissa. E se ci pensiamo, ciò caratterizza anche il blues e jazz. Nell’improvvisazione, è importante la voce riconoscibile del solista, di Coleman Hawkins o Charlie Parker, e non il suono preciso, perfetto ma un po’ impersonale del sassofono della banda. È l’espressione dell’individualità.

Se nella prima parte del libro è protagonista la ricostruzione storica del percorso tortuoso della voce nera, nella seconda, si elabora invece un’antropologia. Sono le persone, i musicisti di oggi che parlano. Quali gli incontri che più le sono rimasti impressi?
Uno è l’artista poliedrico Theaster Gates – attivista, poeta, cantante, urban planner e tanto altro - che con il suo gruppo vocale, The Black Monks of Mississippi, fa performance nei più grandi musei americani. Gates ha valorizzato nel South Side edifici abbandonati ma anche archivi dimenticati, come quello di un famoso negozio di musica ridotto in bancarotta, mettendoli al centro della rinascita di quartieri chiamati food desert, in cui è impossibile comprare cibo fresco perché esistono solo supermercati pieni di cibo spazzatura. In questi quartieri, Gates porta “cibo per la mente”, ovvero bellezza e cultura per rivalutare il patrimonio culturale della comunità afroamericana.

Poi c’è il capitolo dedicato all’insegnante di canto Lena McLin.
Lena rappresenta il ponte ideale tra la musica nera di fine ‘900 e l’oggi. Nipote di Thomas Dorsey, padre del gospel, ha suonato per Mahalia Jackson ed è stata, tra i tanti, maestra di Chaka Khan ma anche di cantanti lirici che si sono esibiti al Metropolitan di New York. Lei sostiene che se non conosci la tua storia cedi alle aspettative di chi sta davanti a te. Come cantante afroamericano, devi conquistare consapevolezza che tu rappresenti un corpo nero che canta e quindi parlare coi tuoi antenati, sentirli vicino a te. Come fanno tutti i grandi interpreti della musica nera. Ciò si ricollega a un altro capitolo del libro in cui parlo di “complicità con gli eccessi”. Tutti, da Nina Simone a John Coltrane hanno dovuto cercare questa complicità. Da artista nero, se non vieni a patto con la storia americana, estremamente intrisa di dominio del denaro e di violenza, non potrai mai ottenere successo. Ciò è problematico per le persone che ho incontrato perché perseguono una carriera ma hanno interesse a rafforzare legami interni alle comunità in cui lavoravano. Questo disequilibrio segna profondamente il loro rapporto con la musica.

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